È un’epopea. Breve. Ce la racconta Emanuele Tonon. È una vita densa di vita, breve e rapida, di Marco Simoncelli. Per me, come per tanti, appassionato di moto GP solo nella parte dello spettacolo, delle gare, delle interviste, che incredulo ho visto la tragedia accaduta a questo campione, leggere il libro di Tonon è stato come immergermi in un mondo sconosciuto.
I circuiti celesti (66thand2nd ed., 2013) si legge in un soffio, come è stata un soffio la vita del Sic. In realtà, si tratta del racconto di due vite parallele, quella del campione e quella dello scrittore, Marco ed Emanuele. Si vede subito quanto i due si somiglino, sicuramente non nei fatti della vita reale ma nell’identità dei sogni, nella schiettezza, nella passione di andare avanti cocciuti, e di farcela. L’uno con le moto, l’altro con le parole.
Nel pantheon di Emanuele Tonon, Marco c’è, ed è al posto d’onore. Perché anche l’autore, fin da ragazzo, ha avuto confidenza con i motori, a cominciare dallo scalcinato motorino del padre. E quindi, se ciò che si vive nei primi anni diventa mito, la moto è mito, ed anche il Sic diventa mito. Perché appartiene a quel mondo di motori, fughe, cadute, per rialzarsi sempre.
I circuiti celesti ripercorre la vita di Marco come un rosario, all’inizio gaudioso. Nella zona dove è nato, nel paese di Coriano, in Romagna, la moto è una religione civile; lì tutti corrono. I primi anni sono duri, la famiglia è laboriosa ma ha qualche difficoltà economica, con il lavoro in gelateria e i tanti sacrifici per progettare il futuro. Pare di vedere quei colori di coni gelato, allegri come lo è Marco ragazzino, già a quattro anni su una minimoto Suzuki mini cross. Appena lo vedono correre in una pista, in paese, capiscono con chi hanno a che fare.
È l’epopea della formazione, delle corse per quelle colline dolci e invitanti che paiono star lì proprio per farsi percorrere in moto, su e giù per i pendii. Marco cresce, la gaiezza e la leggerezza sono le sue doti. La madre è titubante, come sempre le madri, ma mette da parte le paure per appoggiarlo in tutto. Il padre poi è il suo amico. Sono inseparabili: Paolo Simoncelli è il manager, il nume tutelare e il primo fan del figlio.
Incontrano i primi mecenati locali, ed è il rosario glorioso. Marco è un guascone, cade molto ma è felice solo in moto. Padre, madre, figlio, come tutta la gente della zona, sono persone generose di sé, conoscono il rischio ma non arretrano. Accettano tutto combattendo. Marco comincia ad inserirsi nel giro, arriva la prima fama, entra nel circuito delle tv, interviste, notorietà. Matteoni, del cui team fa parte, è un secondo padre, un maestro: gli insegna a frenarsi, a controllare il suo impeto, gli dà una forma – Marco avrà qualche intoppo e delle difficoltà successivamente, con il team di Rossano Brazzi, quello di Valentino Rossi. Lì non è in sintonia con la squadra: il Sic è uno spirito gioioso e lì non trova gioia. Cadute e tristezza.
Ancora una volta compare il parallelismo tra Marco e Emanuele. L’emarginazione subita dall’autore, Tonon la ritrova nel percorso di Marco. La percepisce con empatia e commozione. E noi con lui, patiamo non solo per il Sic ma anche per l’ingrato apprendistato della vita di Emanuele. La filosofia del Sic è comunque di ”sbattersene i coglioni”, e di andare avanti. Perché, come nel mondo della scrittura, anche in quello delle moto c’è la stessa vana gloria, meschinità, e favoritismi e sconfitte. Per entrambi il modo per fortificarsi è guardare avanti, sempre, e alzare alla fine gli occhi solamente per volgerli al cielo, per giocarsi tutto ma senza concessioni a nulla. Essere fedeli a se stessi e non sentirsi mai sconfitti. Cadere e rialzarsi.
È la gratuità del gesto sportivo e dello scrivere, quando ci si gioca tutto anche partendo svantaggiati, e c’è solo il fervore che spinge avanti. C’è anche un simbolo araldico per ognuno dei due, come per gli antichi cavalieri erranti, una lepre per Emanuele e un giaguaro per Marco. e poi il numero 58 sulla tuta del Sic, da lui subito amato perché collegato all’anno di nascita della madre. Perché è sempre tutto un ritorno a Coriano, ai luoghi, alla famiglia, al presepe di affetti dove lui ritorna sempre, perché anche se è un essere alato, vuole le radici, perché queste contano e lo attirano. I risultati dopo tante fatiche ci sono, le vittorie, il successo, in un breve rosario di gloria.
E si arriva al rosario del dolore: si sgrana a Sepang, in Malesia, il 23 ottobre 2011. Dopo due giri, il volo. La fine.
Tutta questa vita è raccontata con una scrittura poetica ed alata perché appartiene all’aria, come le apparteneva il Sic. “Muore giovane chi al cielo è caro” diceva un proverbio antico. Però Marco Simoncelli era caro anche per noi, con la sua aria da guascone e lo volevamo ancora tra noi. Grazie Sic. Grazie Emanuele.