Il crepitio del fuoco che brucia vecchi rami di olivo, il fumo che si confonde con il profumo di pomodori, l’intenso caldo di agosto, l’appena percettibile ronzio di mosche e zanzare, in lontananza il canto delle cicale, questa, la cornice che dai primi colori dell’alba caratterizza ancora tante famiglie abruzzesi alle prese con la tradizione delle “Buttij”.
Tramandato da generazione in generazione, questo rito, per fortuna ancora in uso, diventa la ghiotta occasione per radunare la famiglia, dai più piccini agli ormai veterani, nonne, nonni, genitori, zii fino ai nipotini, questi ultimi sempre più concentrati a giocare con le grandi bacinelle d’acqua, o come ricorda zia Rosanna della nipote “…a rubare dalla bacinella i pomodori appena lavati e a mangiarli uno dopo l’altro, fino ad accusare un puntuale mal di pancia”.
Inizia tutto con la scelta dei pomodori, decisiva per la riuscita delle bottiglie e che nella maggior parte dei casi, fatta qualche eccezione, lega in un rapporto di fiducia i più anziani ai contadini, laddove ovviamente non si possieda un orto dal quale attingere direttamente.
Il mattino ha l’oro in bocca, recita il proverbio, ed è infatti con le prime luci di una mattina di agosto che inizia la vera preparazione. Il quadro è quasi sempre lo stesso, troviamo un uomo della famiglia votato al fuoco mentre le donne, indossate le “mantusine”, si distribuiscono il lavoro osservate dai curiosi occhi delle nipotine pronte ad imitarle e ad aiutare.
In questo caso è zio Bruno a preparare il camino servendosi di rami secchi d’olivo ed una volta pronto vi pone sopra “Lu Callar” colmo d’acqua, termine dialettale per indicare un largo e profondo contenitore in rame del cui color ambrato resta ormai solo un ricordo vecchio 50 anni.
Davanti ad una grande bacinella azzurra poi, seduta su una sediolina troviamo invece zia Rosanna che con estrema velocità, figlia dell’esperienza, sciacqua e seleziona i pomodori migliori per coprirli successivamente con un panno prima di cederli alle alte fiamme che circondano Lu Callar .
Profumi, odori, calore, fumo, si sprigionano dal camino e si disperdono nell’aria richiamando l’attenzione di fastidiosissimi insetti e di qualche spettatore occasionale sempre pronto a rivendicare qualche bottiglia.
Terminata la scottatura dei pomodori, questi vengono raccolti dentro cassette di plastica rivestite da panni e stupisce a questo punto l’organizzazione, l’armonica collaborazione, gesti ordinati e precisi che tradiscono la loro anzianità.
Piano piano poi vengono passati nella macchinetta, oggi elettrica, ma certamente ricorderete il faticoso attrezzo a manovella, che separa le bucce dal concentrato colato così in un recipiente e coperto per evitare spiacevoli intrusioni.
Questo è il momento della lavorazione che più ho preferito, quello in cui l’aroma di fumo misto a profumo che si era in principio attaccato tacitamente ai vestiti rivelando appena la partecipazione a questo rito lascia posto ad una vera e propria confessione e rivelazione grazie alle chiare ed inevitabili macchie rosse stampate su maglie e mantusine, un affresco di tradizione abruzzese che almeno una volta nella vita ciascuno di noi ha provato.
Terminata la vera preparazione ed ottenuto il sugo, segue l’imbottigliamento che come ci spiega Bruno “prima avveniva colando con la cannuccia il concentrato nella bottiglia, tappando poi questa con il sughero e fissandola con lo spago per evitare che scoppiasse” e che oggi invece prevede i tappi a corona affissi attraverso uno strumento apposito per poi concludere il tutto ripassando le bottiglie ne lu callar per sterilizzarle.
“Trascorreva un’intera giornata e poi la sera, finito il lavoro, si cenava tutti insieme, magari servendosi della brace per cucinare peperoni e salsicce” racconta zio Bruno e ci lascia così immaginare una lunga tavolata, la brace ancora rovente, un po’ di pane ad arrostire, quel profumo d’estate ancora forte, qualche affresco rosso sul pavimento, le bottiglie allineate ad un angolo e un’intera famiglia riunita nella sacralità di una gustosa tradizione.