Le domeniche autunnali portano spesso con sé quel non so che di malinconico, sembra che il tempo scorra a rallentatore mentre la condensa si ferma sui vetri, le poltrone si affollano di copertine in pile e tutti cercano alternative più dinamiche ma di fatto, quel tepore conquistato, sconsiglierebbe a chiunque di cimentarsi in qualcosa di nuovo.
Eppure questa mattina ho sfidato la routine (e il freddo) e la mia domenica dai nonni si è trasformata in un vero e proprio viaggio nel tempo, sull’esempio di Marty Mcfly, abbiamo vagato fra i ricordi del passato, intervallando risate e riflessioni e così ho raccolto e forse salvato la loro memoria, custodendola fra inchiostro e computer.
Nonno Vincenzo e nonna Tittina sono diventati così i protagonisti di oggi e quando ho chiesto loro di riempire la mia giornata con le loro storie non se lo sono fatti ripetere due volte, in pochi minuti si sono seduti accanto a me e hanno iniziato a prendersi gioco dei loro superati ottant’anni ma soprattutto hanno sin da subito iniziato a bisticciare su chi dovesse prender prima la parola.
Ovviamente la mia curiosità si è indirizzata verso un periodo che per la mia generazione ha da sempre destato grande interesse, quello della guerra, e sebbene libri, trasmissioni, articoli stessi ne abbiano l’archivio pieno a tal punto da soddisfare, almeno apparentemente, la nostra sete di conoscenza, quel che spesso manca sono le microstorie delle persone, le vicende personali, le esperienze che hanno del resto forgiato i nostri nonni.
“Da Castel Frentano – esordisce nonno battendo sul tempo la moglie - venivo a scuola a Lanciano o a piedi mettendoci circa un’ora o in bici a ruota fissa e senza freni portando dietro una mia compaesana” e mentre alla pronunciata “compaesana” si solleva il sopracciglio di nonna, lui continua spiegandomi che frequentava le vecchie industriali che si trovavano lungo il corso e che poi, a causa dei bombardamenti che, durante la guerra, distrussero l’edificio, fu costretto a cambiare per l’avviamento e ragioneria poi.
“Ricordo che a Lanciano nel ’44 c’erano i neozelandesi” il discorso si interrompe, un silenzio inatteso irrompe e mentre sollevo la testa per capirne la causa scruto occhiatacce fra i miei nonni, capisco così che la questione di tanto risentimento era niente di meno che la data appena citata che evidentemente non combaciava con i ricordi di nonna Tittina, la quale, muovendo il capo con chiaro disappunto, cercava di inserirsi nel discorso contestando la memoria di nonno, che ovviamente non l’ha presa bene.
Superata questa parentesi e di nuovo discussioni su chi dovesse proseguire nel racconto, è ancora lui a vincere e continua “noi avevamo il mulino e autorizzati dai tedeschi potevamo macinare per la gente dalle 08:00 alle 17:00 perché dopo quell’ora c’era il coprifuoco, eravamo sfollati alla contrada mezza monaca (costa dell’olmo) ed un bel mattino andavo verso Castel Frentano, per raggiungere il mulino, con mio padre e il cane Bobby - o Boby, non ho capito bene - quando all’improvviso si abbassò un apparecchio che iniziò a mitragliare contro di noi, così ci rifugiammo in una cunetta, mio padre sotto, io su di lui e il cane sopra di me”.
Non avevo ancora capito che la storia che stava per raccontarmi sarebbe stata forse una delle più commoventi mai sentite e così mentre io scrivo cercando di stare dietro alle sue parole prosegue “il cane riportò moltissime ferite, così tante che pensavamo fosse morto, non si muoveva più e così, fattomi carico di tutta la tristezza di un tredicenne, decidemmo di tornare indietro. Dopo cinque, sei giorni, un mattino, ricordo fossero le 04:00, sentimmo tutti graffiare fuori la porta, c’era qualcuno che grattava, come abbiamo aperto, ci siamo trovati davanti Bobby, era tornato a casa, da noi”.
Mentre racconta, nonno è impassibile, gli occhi profondi sembrano scavare nei suoi ricordi e la storia del suo cane riguardava evidentemente le memorie più intime e più sotterrate, a tal punto che riportarla alla luce gli sarà costato, immagino dal corrugamento in volto, certamente uno sforzo.
“Bobby era tornato ma aveva le convulsioni, ai miei tempi si chiamava il male di San Donato e non riuscivo a vederlo in quello stato, mi faceva soffrire troppo, così mio padre decise di dare il cane ad un contadino, ma di nuovo dopo qualche giorno vedemmo Bobby alla porta e ci fece tante feste, poi arrivò il nuovo padrone a riprenderselo, tempo di tornare a casa che lo vedemmo tornare ancora una volta, questa volta senza Bobby, lui era morto, ci venne a salutare prima di lasciarci, questa storia mi ha segnato tanto”.
Le storie della guerra sono anche queste, e protagonisti e martiri furono anche i cani ad esempio e sono felice di poter essere custode della storia di Bobby e farla rivivere assieme a tutte le altre.
Sfruttando il silenzio seguito alla storia del cane ecco che nonna inizia ad accennarmi della volta in cui cadde un "apparecchio" in paese, ma di cui, sottolinea, si ricorda ben poco, così provo a sollecitare i suoi ricordi sulla fine della guerra e l’arrivo degli alleati ed è così che forse, memore di bei giovanotti americani in divisa, qualche immagine sbiadita viene fuori “raccoglievo le caramelle e la cioccolata anche se, nonostante fosse tutto finito, la paura c’era ancora, soprattutto per le mine che i tedeschi avevano disseminato e che causarono la morte di molti”.
Sottratto alla storia anche questo ricordo provo a quel punto ad indagare, senza alcuna discrezione, sulla loro storia d’amore, per aggiungere un po’ di cronaca rosa, ma mio nonno tronca ogni mia speranza quando perentorio, prima di andare via (ma rivolgendo, nel mentre, uno sguardo ancora tanto innamorato e fedele alla moglie) dice “Don Amerigo, il sindaco e tutto il parentato si sono messi in mezzo per farmi sposà tua nonna” e dopo aver fatto un occhiolino abbandona la cucina per rifugiarsi nella sua poltrona preferita.
La domenica mattina è trascorsa così, senza neanche che me ne accorgessi, niente condensa sui vetri, niente freddo e niente plaid ma solo tante risate e tante nuove scoperte ed è un viaggio nel passato che consiglio a chiunque possa, di fare, almeno una volta, affinché queste piccole e bellissime storie non si perdano nel tempo.